Con l'ordinanza n. 37460 depositata il 27 luglio 2017, la Corte di Cassazione, sez. III penale, ha rimesso ai Giudici comunitari di Lussemburgo la soluzione di come capire quando un rifiuto, codificato come "voce specchio o speculare", sia pericoloso o meno, poiché contiene sostanze pericolose.
La Corte di Cassazione ha posto la questione pregiudiziale sulla questione della classificazione dei rifiuti con codici a specchio formulando i seguenti quattro quesiti:
1) Se l'allegato alla decisione 2014/955/Ue ed il Regolamento Ue n. 1357/2014 vadano o meno interpretati, con riferimento alla classificazione dei rifiuti con voci speculari, nel senso che il produttore del rifiuto, quando non ne è nota la composizione, debba procedere alla previa caratterizzazione ed in quali eventuali limiti;
2) Se la ricerca delle sostanze pericolose debba essere fatta in base a metodiche uniformi predeterminate;
3) Se la ricerca delle sostanze pericolose debba basarsi su una verifica accurata e rappresentativa che tenga conto della composizione del rifiuto, se già nota o individuata in fase di caratterizzazione, o se invece la ricerca delle sostanze pericolose possa essere effettuata secondo criteri probabilistici considerando quelle che potrebbero essere ragionevolmente presenti nel rifiuto;
4) Se, nel dubbio o nell'impossibilità di provvedere con certezza all'individuazione della presenza o meno delle sostanze pericolose nel rifiuto, questo debba o meno essere comunque classificato e trattato come rifiuto pericoloso in applicazione del principio di precauzione.
Nel contempo, ha anche incidentalmente preso posizione sulla questione della classificazione dei rifiuti con codici a specchio, ai punti da 7 a 11 e precisamente:
"7.Ritiene tuttavia la Corte che tra le due tesi interpretative di cui si è dato conto in precedenza, quella cosiddetta probabilistica viene talvolta proposta con argomentazioni che appaiono equivoche, laddove, sostenendo, ad esempio, l'assoluta impossibilità tecnica di procedere ad una adeguata analisi del rifiuto, si assume che il produttore del rifiuto possa sostanzialmente classificarlo a sua discrezione o, comunque, attraverso le metodiche ritenute adeguate da chi procede alle analisi, pena la inevitabile classificazione di tutti i rifiuti con voci speculari come pericolosi.
In altre parole – e l'assunto sembra del tutto logico – tale affermazione starebbe a significare che, accertando l'esatta composizione di un rifiuto, è conseguentemente possibile verificare la presenza o meno di sostanze pericolose.
Altrettanto coerente sembra l'ulteriore osservazione secondo la quale la composizione di un rifiuto non è sempre desumibile dalla sua origine, come nel caso in cui non derivi da uno specifico processo produttivo, ma sia talvolta conseguenza di altri fenomeni o trattamenti che ne rendono incerta o ne mutano la composizione.
Una posizione non dissimile, che però valorizza anche il principio di economicità nella gestione dei rifiuti di cui all'articolo 178 del Dlgs 152/2006, si rinviene nella requisitoria del Procuratore generale Pasquale Fimiani, al punto 7:
"Per l'ipotesi in cui la Corte non ritenga di sollevare le predette questioni pregiudiziali, si chiede l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.
Non sembra, invero, persuasiva, la tesi secondo cui, ai fini della classificazione di un rifiuto come pericoloso mediante riferimento a sostanze pericolose, è in ogni caso necessaria una analisi quantitativamente esaustiva del rifiuto di modo che la somma algebrica delle porzioni analizzate copra una percentuale che, sommata a quella di concentrazione più bassa prevista per le varie sostanze pericolose, raggiunga nel complesso il 100% della composizione del rifiuto analizzato, con la conseguenza che, mancando siffatta analisi, opera una presunzione assoluta di pericolosità del rifiuto, mentre si ritiene preferibile, con le precisazioni che seguono, l'orientamento che esclude la presunzione assoluta di pericolosità del rifiuto in presenza di analisi quantitativamente non esaustive, purché sia fornita la prova da parte del produttore di aver svolto analisi mirate, sulla base di criteri oggettivi, verificabili, coerenti con la natura dei cicli produttivi e tecnicamente attendibili.
Si consideri, infatti che:
il criterio della concentrazione delle sostanze pericolose si limita ad individuare il livello percentuale della loro presenza raggiunto o superato il quale il rifiuto deve ritenersi pericoloso, ma non richiede espressamente la necessaria verifica analitica della percentuale residua in modo che la sommatoria delle porzioni analizzate sia pari all'intero; sia la decisione n. 2000/532/Ce e s.m.i. che la decisione 2014/955/Ue prevedono come uno dei passaggi fondamentali per la caratterizzazione di base, la identificazione della fonte che genera il rifiuto, previsione ultronea ove si richiedesse in ogni caso una analisi quantitativamente esaustiva, la quale, comportando la verifica del 100% del rifiuto, è del tutto sganciata dal confronto con il ciclo che genera il rifiuto; la stessa premessa dell'allegato D) introdotta dalla legge 11 agosto 2014 n. 116 e la decisione n. 2000/532/Ce, al punto 4, non è eccentrica rispetto a tale previsione, in quanto specifica le modalità di confronto con la fonte da cui origina il rifiuto, con disposizioni di carattere meramente esplicativo di un obbligo primario già esistente; la disciplina della caratterizzazione dei rifiuti da conferire in discarica di cui all'allegato 1 del Dm 27 settembre 2010 ed all'omologa sezione 1 dell'allegato alla decisione 19 dicembre 2002, n. 2003/33/Ce, al punto 4, prevede che le determinazioni analitiche di cui al punto 3 cui "non sono necessarie… qualora… tutte le informazioni relative alla caratterizzazione dei rifiuti sono note e ritenute idonee dall'autorità territorialmente competente al rilascio dell'autorizzazione di cui all'articolo 10 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36", a conferma che la conoscenza dei cicli produttivi e delle sostanze trattate, nonché la produzione regolare e prevedibile dei rifiuti, costituiscono elementi qualificati di selezione in base ai quali è possibile eseguire un'analisi egualmente rappresentativa della reale natura del rifiuto pur se non esaustiva sotto il profilo quantitativo; il principio della economicità della gestione dei rifiuti enunciato dall'articolo 4, comma 2, secondo paragrafo, della direttiva 2008/98/Ce e dal corrispondente articolo 178 Tua opera anche nella materia della classificazione dei rifiuti, dovendosi condividere l'affermazione della dottrina secondo cui, "poiché la fase di analisi/caratterizzazione/classificazione del rifiuto è propedeutica alla sua successiva gestione, anche tale fase deve essere fattibile sotto il profilo sia tecnico sia economico. La fattibilità tecnica potrà comprendere — ad esempio — la possibilità di effettuare un campionamento rappresentativo e l'esistenza di metodi analitici ufficiali o, in qualche modo, validi, ed il tutto dovrà essere economicamente proporzionato allo scopo, cioè alla gestione del rifiuto; in altri termini non si possono pretendere azioni, comportamenti e misure privi di fattibilità tecnica ed economica"; il principio di precauzione non può fondare, "ex se" un obbligo di analisi quantitativamente esaustiva, a prescindere dalla normativa di dettaglio, non essendo immediatamente cogente, né fonte diretta di obblighi per gli operatori (cfr. relazione del Massimario penale della Cassazione n. III/04/2015, del 29 maggio 2015, sulla legge n. 68 del 22 maggio 2015, recante "Disposizioni in materia di delitti contro l'ambiente" pag. 21 ed ivi rif.); in ogni caso il principio di precauzione andrebbe bilanciato con il principio di proporzione di cui all'articolo 5 Tue, operazione ammessa anche nella materia ambientale dalla Corte costituzionale (sentenza n. 85/2013) e, del resto, alla base dell'introduzione nella materia del principio della economicità della gestione dei rifiuti; è noto che, in sede di controllo, vale il principio di libertà e non tassatività delle prove penali, il quale consente di ritenere superflue le analisi allorché la prova del reato derivi da altri elementi processuali oppure sia fondata su massime di comune esperienza ed in questa prospettiva si è ritenuto che "l'accertamento della pericolosità di un rifiuto non richiede necessariamente il ricorso ad attività tecniche, quali il prelevamento di campioni e l'analisi degli stessi, potendo il giudice accertarne la natura sulla base di elementi probatori diversi, purché fornisca una motivazione congrua, giuridicamente corretta e logica" (Sez. III, n. 24481/2007), affermazione fatta in una fattispecie in cui erano incontestate la natura del ciclo produttivo e l'identità dei rifiuti trattati (si trattava del lavaggio di autocisterne che trasportavano "acido solforico, cloridrico, acetico e nitrico, ipoclorito di sodio, soda caustica e colla ureica"); sembra allora incongruo, sul versante opposto, precludere in ogni caso al produttore la possibilità di provare di avere adempiuto all'obbligo di risultato che grava su di lui, consistente nella rispondenza al vero della classificazione ai fini della successiva corretta gestione, pur in assenza di analisi quantitativamente esaustive.
In definitiva, in presenza di rifiuti aventi codici "a specchio", qualora il produttore non abbia svolto analisi quantitativamente esaustive, ma improntate a criteri di selezione, si determina una mera presunzione relativa di pericolosità, che può essere vinta dal produttore qualora adempia all'onere di provare che tali criteri sono oggettivi, verificabili, coerenti con la natura dei cicli produttivi e tecnicamente attendibili.
Onere che può ritenersi adempiuto quando il produttore fornisca la prova che:
è certa la natura e provenienza delle sostanze che generano il rifiuto; è noto il ciclo produttivo; la produzione del rifiuto non ha caratteristiche di discontinuità od imprevedibilità; la ricerca delle sostanze pericolose è stata effettuata in modo coerente con tali elementi;
nonché documenti adeguatamente le operazioni di campionamento ed analisi, inclusive della enunciazione dei criteri selettivi per la ricerca.
Quando, invece, non sussistano le predette condizioni (ad esempio è ignota l'origine dei rifiuti, oppure le sostanze che li costituiscono sono del tutto ignote e non ipotizzabili), ovvero, pur sussistendo in astratto, la prova non sia in concreto fornita, l'analisi quantitativamente esaustiva costituisce l'unica via per la corretta rappresentazione del rifiuto e dalla sua mancata esecuzione consegue la qualifica del rifiuto in termini di pericolosità.
Questa interpretazione, essendo fondata sulla corretta interpretazione delle norme europee in tema di classificazione dei rifiuti, stante la loro diretta applicabilità ed obbligatorietà ex articolo 288 Tfue, trattandosi di decisioni e di un regolamento, dovrebbe portare alla non applicazione delle presunzioni di cui ai commi 5 e 6 della premessa dell'allegato D) introdotta dalla legge 11 agosto 2014 n. 116 laddove comportino soluzioni diverse e più restrittive.
Nella fattispecie, il giudice "a quo" si è limitato, in modo semplicistico, ad affermare che una analisi non esaustiva non implica automaticamente la pericolosità del rifiuto, soluzione comunque erronea anche in relazione alla opzione interpretativa illustrata, che esclude la presunzione assoluta di pericolosità del rifiuto in presenza di analisi quantitativamente non esaustive, purché sia fornita la prova da parte del produttore di aver svolto analisi mirate, sulla base di criteri oggettivi, verificabili, coerenti con la natura dei cicli produttivi e tecnicamente attendibili, in quanto con l'assolvimento di tale onere — da praticarsi con le modalità ed i criteri enunciati — il giudice del merito non si è confrontato".
Il Procuratore generale aveva formulato più ampi e numerosi quesiti, tra i quali figurava anche quello fondamentale relativo ai chiarimenti in ordine al concetto di "pertinenza" delle sostanze rispetto al processo produttivo. Il Collegio però non lo ha accolto.
FONTE: Rete Ambiente